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Lettera di una madre, «Invidio i vostri figli sereni, il mio non parla di futuro»

Di Stefania Roveglia - Content Creator and Corporate Storyteller

Io ve li invidio i vostri figli perfetti. Che fanno sei mesi di Erasmus in terza superiore e scelgono l’università in quarta, dopo essersi iscritti per tempo ai TOLC, senza esitazioni, senza chiedersi: «Dove vado?». Li spio alla fermata dell’autobus che ridono, che hanno il futuro negli occhi, le mani ferme e i piedi che scalpitano. Li ascolto nei vostri racconti, nell’orgoglio che riempie il vostro sguardo e fa abbassare il mio. A volte li vedo i vostri figli, giocano a calcetto il sabato pomeriggio, al parco, spintonandosi giocosi, abbracciandosi ai goal. Li vedo suonare con la band che hanno messo in piedi, scorrere le dita sullo strumento che hanno iniziato in seconda elementare e che non hanno mai abbandonato.

Ce li ho nella testa i vostri figli che sbagliano, ma non troppo. Che a scuola fanno il minimo, però poi sono pieni di interessi. Che sono sempre stati decisi, che hanno sempre saputo che fare. Che in casa parlano poco, ma hanno grandi compagnie. Che studiano per la patente ancora prima dei diciotto. Che lasciano la camera disordinata, ma non fa niente perché «sono sereni». Che riempiono la casa di amici, che anche le pareti ridono con loro.

Guardo loro e guardo Simone, che si sveglia e sospira. E anche quando non lo sento farlo, dietro la porta chiusa, mi risuona nella testa il ricordo di quel sibilo e mi pare di sentirlo il caldo del suo fiato corto che mi attraversa il cuore e lo appesantisce. Guardo Simone e intuisco che giornata sarà dal suo sguardo, dalla malinconia che gli attraversa gli occhi mentre capisco che ha fatto di nuovo a botte con i suoi pensieri. Quelli che non gli danno pace. Oramai da un po’. Lo posso guardare solo di sottecchi, mentre intinge i galletti nel latte, un braccio a penzoloni e gli occhi stanchi – una mattina ancora – fissi sul riquadro degli ingredienti della confezione dei biscotti. L’ha sempre fatto, anche da bambino: per distrarsi, in bagno, leggeva le etichette degli shampoo. Forse anche allora i pensieri lo «venivano a prendere».

Ma allora sorrideva, canticchiava. Aveva una voce con tutto dentro: la gioia, la voglia, la curiosità. Gli è cambiata verso fine della seconda media la voce, si è infilata in una caverna, a volte ora ne esce un grugnito, non scortese, non mortificante, solo rauco. Simone ha un’anima bella, di quelle che le trapassa il dolore, la povertà, l’indifferenza, la troppa bellezza, l’amore quando è vero, il silenzio quando è pace. Entro nella sua stanza la mattina, quando lo sento chiudersi la porta di casa alle spalle. Apro le finestre, lascio che entri l’aria fresca e spero che si porti un po’ di serenità, che si appiccichi alle pareti, per entrargli nel naso la notte. Rifà il letto, a modo suo. Ogni mattina.

Gliel’abbiamo insegnato noi – dopo avergli mostrato non so quale video motivazionale – che rifarsi il letto è il primo gesto per mettere in linea la giornata. E lui lo fa, anche se gli andrebbe di lasciare tutto in disordine, anche se tutto il resto intorno è in disordine: libri, tastiera, calze, fazzoletti. Ma il letto no. Quello è a posto. Lo ripeteva anche sua nonna, napoletana attenta, mentre gli preparava la spremuta di mandarini: «Se il letto è a posto, il resto è a posto». Gli deve essere rimasta da qualche parte questa cosa, incastonata nella testa, nel senso del dovere che gli abbiamo inculcato, standogli addosso, imponendo regole, schiacciandolo forse. Ce lo chiediamo spesso, non facciamo che chiedercelo.

Simone non parla di futuro. Simone non parla al futuro. Fa la quinta superiore, in una delle scuole migliori della città, sembra. Ma sembra solo. Cammina stanco verso un edificio fatiscente, dove gli avevano promesso eccellenza per restituirgli mediocrità e fiducia tradita. Nella sua classe, nei racconti scarni e vaghi che ritorna, c’è l’essenza di questo tempo, forse di questa città: la ragazza che si taglia, il ragazzo che scommette, quello che beve prima di entrare, quello che sta all’ultimo banco e passa la giornata a giocare al cellulare, quella che mette i maglioni grandi dopo il ricovero per anoressia, quello che spaccia nei bagni. E poi c’è lui, che si chiede troppo, senza rispondersi mai, che avrebbe bisogno di ridere, di gente che ride, e si trova a macerare in un malessere che non riesce mai a spiegarsi del tutto: il suo assieme a quello degli altri. Che vive con il freno tirato, con la paura di lasciarlo, seppure di tanto in tanto ci provi. Un passo avanti, tre passi indietro.

Non invidio il futuro dei vostri figli, ciò che saranno, ciò che diventeranno. Chi lo sa se anche a loro capiterà – magari a trent’anni – di chiamarvi nel cuore della notte per dirvi: «Ti prego parliamo, aiutami». Che ne sapete? Magari allora sarà troppo tardi. Noi dentro questo ci siamo ora. Però il presente ve lo invidio, quello sì. Lo ammetto. Invidio sapere che oggi che è lunedì e la scuola finisce alle due, i vostri figli apriranno la porta, leggeri, col riso negli occhi, e vi chiederanno: «Che si mangia?», magari sbirciando sotto il coperchio della pentola sul fuoco, mentre parlano e parlando organizzano un’uscita, una festa, un pomeriggio a cazzeggiare.

Io non so che farà oggi Simone quando rientra da scuola. Lo riconoscerò da come mi saluta, da come strascicano i piedi sul pianerottolo, da dove va ad appoggiarsi il suo sguardo una volta entrato. Saprò se i pensieri gli hanno dato pace, se un passo alla volta il freno si è allentato. Se il respiro ha ricominciato ad arrivargli nel fondo della pancia, senza strozzarsi, lasciandogli la voce libera di canticchiare, di gioire, di ricominciare a vedere che c’è ancora tanto di così bello.