Work - Reloaded

Addio CV, benvenuti nell’era della competenza

Nella valutazione dei potenziali candidati, i datori di lavoro si concentrano ora sulle competenze piuttosto che sulle qualifiche. Questo approccio è noto come "skills first". Molte grandi aziende statunitensi, come Google e Microsoft, hanno iniziato a dare priorità alle competenze rispetto alle qualifiche. I titoli di studio possono essere le fondamenta di una carriera, ma sono le competenze a distinguere i candidati dai loro pari.

Di Manuela Travaglini - Avvocato, Head Of Sustainability Observatory Assoholding

Credete ancora che una laurea o un master siano la chiave primaria per il successo professionale? Che i titoli elencati sul CV siano un passepartout per l’assunzione? È tempo di ripensarci.

Benvenuti nell’era della skills first menthality, la mentalità delle competenze: un cambiamento di mindset che vede ora molti datori di lavoro valutare i candidati potenziali non più sulla base di titoli e conoscenze, “degree and pedigree” ma sulla base delle competenze effettive che si è in grado di mettere sul tavolo delle negoziazioni.

Ed è così che, se in passato le aziende si sono concentrate più sui titoli di studio, sull’esperienza e sull’ambiente di inserimento di un candidato, oggi si guarda alla possibilità di adattarsi ad un nuovo contesto, e magari di portare un bagaglio di conoscenze ed esperienze in grado di far superare il gap delle conoscenze accademiche. Del resto, in un mondo in cui quello che si impara dopo 4 o 5 anni di università può rivelarsi già obsoleto al termine degli studi, guardare solo al blasone avrebbe poco senso.

Tra i più illustri sostenitori del nuovo approccio skills first anche Ryan Roslansky: in un’intervista rilasciata di recente ad Harvard Business Review, il CEO di LinkedIn ha dichiarato:

Per troppo tempo abbiamo usato i titoli di studio. Oh, questa persona ha frequentato questa grande scuola, quindi deve essere brava”. … Non avevamo niente di meglio da fare per valutare il talento. Ma quando il mercato del lavoro si muove molto più rapidamente, dobbiamo trovare qualcosa su cui concentrarci“.

E ancora: “Penso che le aziende che si concentrano sulle competenze come moneta di scambio, che si allontanano da segnali più antiquati come la sola laurea o il pedigree… contribuiranno a garantire che le persone giuste possano ricoprire i ruoli giusti, con le competenze giuste, svolgendo il lavoro migliore”. Credo che si creerà un mercato del lavoro molto più efficiente ed equo, che creerà migliori opportunità per tutti“.

Rolansky, del resto, non è il solo a pensarla così: con l’evoluzione del mercato del lavoro, accelerata nel post pandemia, le aziende cercano professionisti in grado di adattarsi rapidamente ai cambiamenti e di possedere le competenze giuste – non necessariamente accademiche – per il lavoro che andranno a svolgere.

Se ne parla tanto adesso, ma non si tratta di un’idea nuova: ne parlava già un vecchio rapporto del World Economic Forum, che nell’ormai lontano 2018 ammoniva che “entro il 2022, non meno del 54% di tutti i dipendenti avrà bisogno di una significativa riqualificazione e aggiornamento“. Per poi concludere che le persone che investono nel proprio set di competenze interdisciplinari sono meglio posizionate per l’avanzamento di carriera e il successo.

E ancora non s’immaginava che ci sarebbe stata la pandemia…

I titoli di studio possono fornire le basi per una carriera, ma sono le competenze a distinguere i candidati dai loro colleghi“, affermava ancora nel 2019 Jeff Haden in un articolo per Inc. Magazine. “I datori di lavoro – concludeva Haden – sono più interessati a ciò che potete fare per loro oggi che a ciò che avete fatto in passato“.

Come conferma Anna Talerico in un recentissimo approfondimento pubblicato su Corporate Finance Institute, il messaggio skills-first non è solo teoria: almeno nel mondo anglosassone sono in molti a scommetterci. Molte delle più grandi aziende americane, tra cui Google, Microsoft, EY e Apple, hanno iniziato a privilegiare le competenze rispetto ai titoli di studio. In IBM, la percentuale di annunci di lavoro che richiedono una laurea quadriennale è scesa dal 95% del 2011 a meno della metà nel 2021. Accenture ha lanciato nel 2016 un programma di apprendistato per facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro di persone da formare in house: ha già assunto 1.200 dipendenti grazie a tale schema, e conta di colmare così il 20% dei ruoli entry level, mentre General Motors ha eliminato la laurea quale requisito da tutti gli annunci di lavoro in cui la qualifica non è ritenuta strettamente necessaria.

Insomma, per i big players americani il futuro delle assunzioni non partirà dai titoli ma dal talento. Ma quanto tale nuova mentalità è applicabile al mercato del lavoro italiano? Implementarla richiede sicuramente un cambiamento culturale nelle organizzazioni, che dovranno far propria l’idea che il lavoro si può imparare sul campo ma anche avere gli strumenti di valutazione giusti che consentano un continuo aggiornamento delle competenze dei candidati, affinché le stesse siano sempre allineate alle esigenze dell’azienda: è un percorso in salita, ma chi saprà adeguarsi per tempo avrà un vantaggio competitivo rilevante nell’attrarre i migliori talenti: forse privi di titoli altisonanti, ma con tutti gli skills necessari.