La piccola e media impresa rappresenta la struttura del modello produttivo italiano ma soprattutto il rapporto diretto dell’economia con i territori e la sua stratificazione storica di saperi e competenze.
Il forte legame con le produzioni locali attraverso la valorizzazione dei distretti industriali e del know how storico del Made in Italy, frutto di storie d’impresa a gestione famigliare di successo, rappresenta un fattore cardine dell’economia italiana non solo da un punto di vista finacially material ma anche di rigenerazione e salvaguardia del territorio.
Un modello in grado di ottenere risultati importanti anche in settori maggiormente capital intensive e tecnologicamente avanzati, pur con la tara storica di un livello di bassa capitalizzazione, storicamente incentrato sull’intermediazione bancaria.
L’elevato costo delle commodity, gli alti prezzi dei beni energetici e i processi della transizione sostenibile, rischiano ora di mettere in difficoltà e travolgere la competitività delle PMI italiane e tale patrimonio storico. Quello che potrebbe essere definito in altre parole sustainability divide, ovvero il rischio che parte del nostro sistema produttivo non riesca a cogliere le occasioni della transizione green.
Gaetano De Vito, presidente di Assoholding, associazione di categoria impegnata con il suo Osservatorio sui temi della sostenibilità, sottolinea: “La sostenibilità per le imprese non rappresenta più solo una semplice scelta”.
Secondo le stime 2022 del cento studi Cerved, basate sulle indicazione della BCE, le risorse necessarie da investire per attuare la transizione green sarebbero stimabili in circa 135 miliardi di euro.
“In questa fase” spiega De Vito “il rischio è che molte PMI possano arrivare impreparate subendo il processo di transizione in modo passivo e senza l’adeguata preparazione”. Una preoccupazione confermata anche dalle analisi della Banca Centrale Europea che ha individuati due principali tipologie di rischio:
– il rischio fisico, associato ai danni generati da eventi metereologici estremi e da fenomeni di degrado ambientale, accentuati dal cambiamento climatico;
-il rischio di transizione, legato ai costi del processo di adeguamento reso necessario dall’evoluzione verso un sistema economico a zero emissioni nette, in ottemperanza alla strategia di transizione verso la neutralità climatica perseguita dalle istituzioni europee.
Secondo le stime elaborate da Cerved, a livello nazionale gli addetti impiegati in PMI a rischio climate change elevato sono circa 565 mila (il 13,0% del totale), localizzati in particolare nel Nord-Est.
Per quanto concerne la transizione green, le Piccole e Medie Imprese con settori ad alto rischio o molto alto rischio sono circa 16 mila (il 10,6% del totale), con una forza lavoro stimabile in circa 478 mila addetti (l’11,0%). Un divario che rischia di allargarsi in particolare al Sud, l’area più esposta con 127 mila addetti a rischio.
“Un approccio eccessivamente traumatico” sottolinea il presidente di Assoholding, De Vito “rischia di minare la fiducia in una reale sinergia tra sostenibilità e performance aziendale, rendendo il raggiungimento degli obiettivi ESG un mero costo compliance piuttosto che uno strumento per una consapevole creazione di valore nel lungo periodo”
L’Harvard Business Review, tra le più autorevoli riviste del settore, ha evidenziato come siano ancora poche le aziende che realmente sono riuscite a fare della sostenibilità una parte integrante della loro attività strategica e operativa. Le imprese, nella maggior parte dei casi, tendono a distinguere la performance ESG dalle scelte chiave su investimenti e processo produttivo.
Per De Vito questo vale in maniera ancora più significativa per il tessuto imprenditoriale italiano delle piccole medie imprese. “É necessario” – conclude De Vito – che le PMI siano accompagnate in questo percorso in modo proporzionale e in piena coscienza, un approccio win-win in grado di conciliare il benessere per la società e una crescita delle imprese”