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È possibile pensare ad un modo per promuovere, commercializzare, sponsorizzare la pace?

È sempre più urgente intraprendere un’azione comune che coinvolga aziende, istituzioni, rappresentanze politiche, grandi organizzazioni, unite in un unico scopo: mettere fine ai conflitti. Questo è lo spunto di riflessione che ci offrono Philip Kotler e Christian Sarkar nell’ultimo articolo “Can Peace be Marketed?” apparso su The marketing journal qualche settimana fa.

Di Stefania Roveglia - Content Creator and Corporate Storyteller

In questo esatto momento, mentre le mie dita scorrono sui tasti, nel mondo si stanno combattendo 59 guerre. Conflitti ad alta intensità, come quello recente in Ucraina e quello storico e cronico tra israeliani e palestinesi, e poi quelli in Birmania, Siria, Yemen, fino ad arrivare alle cosiddette “guerre a bassa intensità”, alle violenze etniche, al terrorismo. Accadimenti feroci che spesso trovano poco spazio nell’opinione pubblica, ma non per questo meno importanti.

Tutti i conflitti iniziano con la separazione: l’esclusione di un gruppo di persone dal resto. Religioni, ideologie, nazionalità, credenze, diventano motivi per cui essere lasciati fuori, per cui essere emarginati. Per cui fare prevalere l’odio e la rabbia sul buon senso e sull’accettazione. C’è la volontà di mettere un confine tra un “noi” e un “loro” alla base della piramide dell’odio teorizzata originariamente dalla Anti-Defamation League. Una distinzione netta che trova spazio prima all’interno di un gruppo ristretto, per diventare poi condizionamento sociale, opinione comune, propaganda. Ma cosa è necessario fare per riprogettare questa piramide? Per costruire una nuova struttura forte e duratura su cui sia possibile adagiare uno strato dopo l’altro la fratellanza, l’empatia, il rispetto, fino a salire più su, un gradino alla volta, verso l’inclusione sociale, la non violenza, l’accettazione del diverso?

È necessario informare, suggeriscono Kotler e Sarkar. Educare le persone a capire che il denaro speso per la guerra è denaro pubblico non speso per il bene comune, mostrare le connessioni tra i politici, la lobby delle armi e i profitti della guerra, esporre il pubblico agli effetti della guerra, proprio come le campagne antitabacco ci hanno mostrato gli effetti del fumo sui nostri polmoni. I governi dovrebbero assumere un ruolo più attivo nell’estirpare i comportamenti sbagliati, incoraggiando i cittadini a denunciare chi inneggia all’odio razziale o etnico e alle discriminazioni per qualsivoglia motivo. Un’idea potrebbe essere anche un Peace Index, sviluppato e adottato dai governi di tutto il mondo, per monitorare il livello di pace di ogni città, Stato o nazione. Quando l’indice di pace diminuisce in un luogo, il governo e i cittadini possono intraprendere una serie di azioni per ripristinare e migliorarne il livello.

Una cosa è certa: solo unendo le forze è possibile costruire prima ancora della pace, un pensiero di pace. Un messaggio da comunicare, da sponsorizzare, da diffondere, nella ferma convinzione che per quanto promuovere la pace possa sembrare un obiettivo ingenuo e naïve, la ricerca della convivenza pacifica è troppo importante per non essere perseguita, con qualsiasi mezzo, a qualsiasi costo e prima che sia troppo tardi.