Dieci anni fa, il film “Her” ci mostrava un futuro in cui le relazioni con le intelligenze artificiali erano una realtà. La pellicola ci racconta della storia d’amore tra un uomo solitario e un sistema operativo intelligente. L’amore di Theodore verso Samantha (il sistema operativo in questione) però non è destinato al lieto fine. Infatti, il rapporto naufraga quando il protagonista scopre che “la sua ragazza” ha altri seicento partner come lui.
Non si tratta di una crudeltà perpetrata dall’intelligenza artificiale. Semplicemente, Her mette in scena quanto il poliamore a cui è predisposta l’IA è sintomo del fatto che Theodore e Samantha non sono compatibili. La rappresentazione del rapporto uomo-macchina è benevola e, probabilmente, riflette una sorta di ottimismo tecnologico tipico dell’America di Obama. Ma ha davvero senso, oggi, vedere ancora il potenziale rapporto uomo-macchina in questo modo?
Quando ho visto Her questo weekend ho pensato a quanto fosse avanti in quegli anni e di come adesso parlare con un’intelligenza artificiale sia “quasi normale”. Si pensi che oggi l’esperienza di un partner artificiale non è più fantascienza, ma la soluzione (efficace o meno che possa essere) a cui possono ormai ricorrere molte persone sole. Esistono già moltissimi casi di persone che si dicono innamorate di un chatbot.
Mi riferisco all’ultima versione 4o di GPT con la quale ho cominciato delle conversazioni che mi aiutassero a migliorare il mio inglese. Cosa che si può già fare per esempio con Loora. Nel film il protagonista, Theodore, si innamora del nuovo sistema operativo di intelligenza artificiale, creato sulla base di una sua prima analisi, come stato d’animo e interessi. La storia esplora sia gli aspetti positivi (una maggiore introspezione personale) che quelli negativi (il fatto di rimanere comunque “soli” fisicamente) di una relazione così paradossale.
Wired, nel suo articolo, scrive che questa storia non potrà mai accadere nella realtà. Nel film “Her” Samantha – l’IA – riflette, pensa, prova emozioni, si comporta quasi come un umano. Ma come possiamo definire tutto questo finzione o irrealizzabile? Io penso invece che probabilmente ci arriveremo – o meglio – accadrà che qualcuno si perderà in una relazione di questo tipo, come ad esempio per trovare conforto (le chat per parlare con i defunti ci sono già).
Forse dovremo spingerci di più nel parlare degli aspetti etici dell’uso dell’IA e a porci molte domande su come dovremmo usarla con buon senso. Soprattutto, alla luce del fatto che stanno proseguendo le operazioni di sviluppo l’intelligenza artificiale generale (AGI). Un software in grado cioè di imitare l’intelligenza umana e dotato di autoapprendimento, senza quindi l’addestramento o lo sviluppo da parte di un umano. Ma quale azienda privata può acquisire il diritto e il potere di sviluppare una tecnologia simile in grado di prevalere pesantemente sull’umanità?
Non è difficile immaginare che questo tipo di tecnologia avrà un impatto devastante. L’intelligenza artificiale “is nothing but digital brains in large computers” sostiene Ilya Sutskever, l’informatico di origine russa ex-membro di OpenAi. Le attuali menti digitali sono molto più deboli delle nostre menti biologiche. Questa situazione, tuttavia, è temporanea. Arriverà il giorno in cui quelle intelligenze ci supereranno, appunto con l’avvento dell’AGI. Per questo è importante che le aziende e i governi entrino sempre di più in un’ottica di collaborazione collettiva per gestire quello che si prospetta essere un cambio epocale di paradigma.