Prithwiraj Choudhury, professore alla Harvard Business School, l’ha definita “leadership regressiva”: è la scelta di Amazon, che dal 2 gennaio 2025, richiama tutti i dipendenti a lavorare in presenza, 5 giorni a settimana. Del resto, il gigante dell’e-commerce era stato anticipato in questa scelta dal patron di Tesla, Elon Musk, che già nel 2022 aveva voluto tutti al proprio desk, minacciando il licenziamento di chi non si adeguava. Non si tratta di casi isolati, visto che da un’indagine del 2023 era emerso che ben il 90% delle aziende statunitensi aveva intenzione di riprendere il lavoro in presenza entro la fine del 2024.
Cultura aziendale e talent retention
Ma torniamo ad Andy Jassy, CEO di Amazon, e alla lettera ai dipendenti con la quale ha annunciato il progressivo ritorno in ufficio. La motivazione ufficiale è il rafforzamento della cultura aziendale, considerata cruciale per garantire collaborazione, innovazione e un rapido adattamento alle sfide. Ma per alcuni le ragioni economiche dietro a questa scelta sono altrettanto evidenti: la crescita della domanda, durante la pandemia, aveva portato Amazon a raddoppiare nel 2021 il numero di dipendenti. Il trend si è però invertito nel 2022, quando la domanda è crollata e Amazon ha registrato una perdita di quasi 3 miliardi di dollari. Dei tanti che avevano aderito al colosso dell’e-commerce spinti dalla possibilità di lavorare da casa, molti presumibilmente lasceranno volontariamente il posto: il sospetto è dunque che la richiesta di tornare a lavorare in presenza abbia poco a che fare con la cultura aziendale e molto con il taglio dei costi. Si tratterebbe, cioè, di raggiungere l’obiettivo della riduzione del personale attraverso dei licenziamenti indiretti, evitando eventuali controversie legali.
Naturalmente, come evidenziato da una recente ricercar di Gallup, una scelta di questo tipo potrebbe comportare serie ripercussioni sulla talent retention, visto che il 64% dei lavoratori americani impiegati full-remote ha dichiarato che in simili circostanze cercherebbe un altro impiego.
Rivoluzione o necessità temporanea?
Durante la pandemia, lo smart working è diventato una necessità globale. Tuttavia, le promesse iniziali di maggiore flessibilità e autonomia per i lavoratori si sono rivelate, in molti casi, un’arma a doppio taglio. Piuttosto che rappresentare una liberazione dalle costrizioni dell’ufficio, il lavoro a distanza ha spesso generato un contesto di iper-connessione e controllo continuo, con riunioni mattutine per impostare la giornata, riunioni nel tardo pomeriggio per fare il punto, e riunioni nel mezzo cui sono stati spesso chiamati a partecipare in massa tanti membri del team completamente estranei a quello specifico progetto. Senza considerare il tempo perso ad aspettare i ritardatari, e quello dedicato ai convenevoli o a divagare. E quando finalmente ci si ritaglia il tempo per lavorare davvero, il rischio è quello di finire a tarda sera, compromettendo il sonno e la qualità della vita. Insomma, lavorare da remoto si è spesso tradotto in una reperibilità 24/7 da costante allerta rossa.
Troppe riunioni: la strategia del lavoro asincrono
Alcune aziende hanno preso misure drastiche per ridurre il numero di riunioni. Shopify, per esempio, ha eliminato tutte le riunioni con più di due persone e ha vietato incontri il mercoledì, mantenendo un solo spazio settimanale per le riunioni più grandi. Anche Meta, Clorox e Google hanno istituito giornate senza riunioni, mentre altre aziende hanno incoraggiato riunioni brevi (massimo 30 minuti) e fuori dall’orario del pranzo.
La soluzione emergente è poi il lavoro asincrono, un approccio che permette ai dipendenti di scegliere ritmi lavorativi più naturali e adatti al proprio “cronotipo”, ovvero i momenti della giornata in cui sono più produttivi. Questo modello si sta diffondendo anche grazie a strumenti come Loom, che consente di comunicare attraverso video pre-registrati, riducendo la necessità di incontri live e promuovendo una gestione del lavoro più autonoma.
Cultura o controllo?
Quando si parla del lavoro remoto, la vera domanda non riguarda tanto l’efficacia della collaborazione a distanza, quanto la capacità delle organizzazioni di adattarsi e gestire in modo diverso il proprio capitale umano.
Il ritorno massiccio in ufficio, imposto da molte grandi aziende tech, solleva il dubbio se davvero si tratti di una necessità organizzativa e di “cultura aziendale” o piuttosto di una strategia di riduzione dei costi o, più in generale, del timore di perdere il controllo.
E quindi: Il ritorno in ufficio è la soluzione?
La decisione di Amazon è un indicatore chiave di una tendenza più ampia nel mondo del lavoro. Per molti dipendenti, il ritorno forzato in ufficio rappresenta una rinuncia alle nuove modalità di lavoro più orientate al benessere personale. Al tempo stesso, il periodo di smart working ha messo in luce una serie di problematiche, tra cui l’eccessiva sovrapposizione tra lavoro e vita privata e la proliferazione di meetings inutili.
Il futuro del lavoro sarà probabilmente un ibrido. Il vero progresso potrebbe risiedere non solo nel “dove” si lavora, ma soprattutto nel “come” si lavora, promuovendo una cultura organizzativa che rispetti il tempo e l’autonomia delle persone, senza naturalmente prescindere dalle esigenze aziendali.